Dawson City, Yukon, Canada. Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti, ultimo avamposto della civiltà yankee (in preda alla febbre dell’oro), al di là un deserto gelato, dove nacquero molte fortune americane. C’è un cinema e i film arrivano, con anni di ritardo; poi però rispedire indietro le pellicole è troppo costoso. A fine anni Settanta, scavi in quello che era stato un campo da hockey ne riportano alla luce un piccolo giacimento, preservato nel ghiaccio. In molti casi, si tratta di film dati per perduti. Bill Morrison usa il found footage per montare una “travolgente ballata sugli anni della corsa all’oro, fatta di newsreel, comiche e melodrammi; il suo discorso stabilisce un parallelo tra gli anni pionieristici del cinema e l’insediamento americano nella sua più remota frontiera” (Sophie Mayer). Presentato a Venezia, dove ha suscitato stupore ed emozione, il film di Morrison reca il valore aggiunto della sua storia: come se le persone sullo schermo si fossero appena svegliate da un lungo sonno nel ghiaccio, fantasmi convocati a narrare la propria lontana avventura, parte della storia americana del Ventesimo secolo.